Il no ufficiale di Hamas non è ancora arrivato, ma in pochi si fanno illusioni. Nel piano americano per una tregua a Gaza, per Hamas non ci sono sufficienti garanzie che dopo la liberazione di ostaggi ed una tregua di 60 giorni Israele non riprenda a bombardare Gaza, come già avvenuto alla scadenza della precedente tregua. Ieri, un alto funzionario di Hamas, Basim Naim, ha fatto sapere che la proposta dell'inviato Usa Witkoff "è ancora in fase di discussione", aggiungendo però che la risposta di Israele "non soddisfa nessuna delle richieste del nostro popolo, prima tra tutte la cessazione della guerra e della carestia". Quanto basta per scatenare l'ultradestra messianica che sostiene il governo Netanyahu, che ostile ad ogni possibile intesa, questa mattina con il ministro della Sicurezza nazionale israeliano, Itamar Ben Gvir, ha affermato che è "ora di entrare nella Striscia di Gaza con tutta la forza necessaria". Rivolgendosi al primo ministro, Ben Gvir, rappresentante di quella parte di Israele che spinge per l'espulsione dei palestinesi da quelle terre ha detto: "non ci sono più scuse, abbiamo già perso troppe opportunità".
Sul campo, proseguono i bombardamenti, con i pochi aiuti che entrano nella Striscia che non allontanano il rischio di una carestia generale. A gestire il controverso meccanismo di distribuzione degli aiuti, è la Fondazione umanitaria per Gaza, recentemente istituita con il sostegno dei governi statunitense e israeliano, che si sta rivelando inadeguata al compito, agendo, perlatro, come denunciano le Ong in contrasto con i principi fondamentali dell'azione umanitaria, come imparzialità, neutralità e indipendenza. Scrive stamani ActionAid: "gli aiuti devono essere autorizzati ad entrare a Gaza su larga scala e devono essere distribuiti immediatamente attraverso l'attuale sistema umanitario, per prevenire ulteriori scene di caos e fermare la carestia. Non devono mai essere militarizzati e non devono mai essere usati come armi di guerra".